Le parole possono ingannare, gli occhi no. Uno sguardo può accarezzare un’anima o esa o scagliarvisi addosso, emettendo la più severa delle sentenze. E allora perché non rappresentarli, questi occhi puntati addosso dalla nascita, che giudicano la diversità anziché accoglierla? Si tratterebbe di un’operazione analoga e inversa alla precedente, dal risultato sorprendente che Alfredo Troise conosce bene: per ottenerlo gli basta guardare dritto negli occhi chi lo osserva e capovolgere gli addendi di un conto che, fino a poco tempo fa, non tornava.
Perfettamente accomodato tra i colori e gli odori pungenti della sua bottega di Valogno, alle pendici del vulcano di Roccamonfina, il pittore napoletano è felice di aver trasformato il pregiudizio nel soggetto preferito delle sue opere. L’arte di Troise è aristotelica liberazione, imitatrice della realtà che ne riproduce i tratti in un gioco di specchi, sublimandoli in un sentimento di compassione e sgomento al tempo stesso. Maestro del dar tregua alle angosce di tutti i giorni, le sue tele promanano espiazione di una colpa non commessa: «Dipingo gli occhi che mi hanno giudicato fin da bambino, quando ha fatto esordio la mia patologia. A quei tempi si sapeva poco e nulla della Sindrome di Tourette», commenta Alfredo. Si tratta di un disturbo neurologico che provoca tic multipli come scuotere il capo o fare smorfie, l’emissione di suoni inconsueti e la ripetizione involontaria di parole volgari. «Venni etichettato come maleducato da coetanei e insegnanti a causa dei miei bizzarri vocalizzi e dei tic che, a detta loro, disturbavano le lezioni». Un marchio d’infamia che ancora o usca i suoi ricordi. Intorno ai vent’anni arriva la diagnosi. È l’inizio di un calvario, tra scoperta di sé e sgomento da parte dei familiari